La questione della pirateria

Questione pirateria

La questione della pirateria
La pirateria nei videogiochi

Pirateria? Questa conosciuta, verrebbe da dire, in base a quanto si vede, sente e legge in giro. Il concetto generico di pirateria informatica, ivi compresa la pirateria nei giochi per console, trattato dalla stampa non specializzata alla stregua di una specie di plum cake onnicomprensivo, fa bella mostra di sè nei settori cronaca, cultura, tecnologia dell’informazione nazionale. Come sempre, tolto il primo velo di glassa, la realtà appare multiforme e sfaccettata ben oltre le apparenze. Questo speciale cerca di mettere in luce alcuni degli aspetti della pirateria nel mondo delle console, senza la pretesa di spiegare tutto a tutti, nel bel mezzo di un grande dibattito , e inizia secondo logica con le avvertenze e le modalità d’uso: un articolo sulla pirateria riflette giocoforza le opinioni del suo autore, nonostante la ricerca dell’obbiettività.

Questione culturale

La pirateria: una questione culturale
La mappa del software pirata nel 2007

Iniziamo da uno degli aspetti più sottovalutati ma più importanti della pirateria, il lato culturale. Cercherò di essere breve… Punto primo: gli americani a scuola NON copiano. Un ragazzo del liceo che non ha studiato quasi mai proverà a sbirciare il foglio del compagno, e se il compagno se ne accorge son dolori. A questo proposito la miriade di film sulla vita scolastica americana racconta una buona dose di balle. Non ci sono bigliettini che passano di mano, nè appuntini rincagnati nella manica o nella tasca della camicia. Copiare è considerato semplicemente disonorevole. E’ chiaro che in questo ambiente difficilmente possono crescere e diffondersi i cultori della libera copia dei giochi, quelli del “io possiedo solo giochi piratati” . A chi dovesse osservare che comunque buona parte dei software piratati e dei crack, anche per PC, arrivano comunque dagli Stati Uniti, bisogna ricordare che questi fenomeni si riconducono in buona parte a quel filo underground che percorre da tempo la società americana e in cui l’hacking, la pirateria, la continua ricerca di una nuova frontiera tecnologica svolgono un ruolo di primo piano. Altra cosa è quanto succede da noi, dove l’uso di copie pirata è un fenomeno di portata nazionale senza possibili etichettature, relativo alla stragrande maggioranza dei videogiocatori. Negli Usa, infatti, le sofware house hanno a disposizione un enorme bacino di utenza lontano dalle tentazioni della copia pirata e pronto ad investire in giochi e programmi, il che configura un mercato profondamente diverso (e decisamente più virtuoso: le software house investono perché pensano di poter vendere molte copie). Dalle nostre parti invece, al di là delle cifre ufficiali, la quota di materiale piratato sconsiglia a volte la produzione o la commercializzazione di un gioco, e il classico cane che continua a mordersi la coda. Come negli Usa, anche in Giappone un mercato strabocchevole, e praticamente saturo, vive felice lontano dalle copie, tanto da permettere l’esistenza, com’è noto, di un’ampia produzione solo nipponica (giochi e console) che i giapponesi non si preoccupano nemmeno di esportare.

Questione economica

Pirateria ed economia
La questione economica nella pirateria informatica

Come dire, l’altra faccia della medaglia. Se è vero che un elemento culturale blocca la pirateria, esiste un aspetto di puro soldo che non è da meno: guarda caso sono Giappone e USA,  due delle economie più importanti della Terra, a comprare più giochi originali. Dalle altre parti, anche in nazioni benestanti come la nostra, manca spesso quel “plus” che permette a un genitore di sborsare i 70 euro necessari per comprare un gioco tutte le volte che un figlio lo chiede. Come resistere allora alle vetrine piene di novità, gadget, personaggini e compagnia bella? Molto semplice, non si resiste. Ed ecco comparire le copie pirata, le modifiche, i boot disc e tutto quello che la tecnologia prossimamente ci vorrà sottoporre. Non a caso tre paesi  (Russia Brasile e Cina) sono all’avanguardia in ogni forma di pirateria elettronica, fino al raggiungimento di una sorta di “estetica del crack” . Facile, di qui, il collegamento riguardante il prezzo eccessivo dei giochi (ma il discorso si potrebbe allargare a programmi, CD, DVD, BLU RAY…). L’industria dell’entertainment preferisce quasi sempre far valere una rendita di posizione, alzando i prezzi ed esponendosi alla pirateria, invece di scendere a patti e rinunciare a una fettina dei grossi margini che un gioco per PlayStation, ad esempio, garantisce. Una precisazione, poi: finiamola una volta per tutte di credere alle buffe dichiarazioni del produttore di turno (una volta è Microsoft, una volta Sony, e così via…) che dichiara perdite mostruose a causa della pirateria: anche un bambino capirebbe che se la pirateria fosse impossibile, solo una piccola percentuale di utenti “illegali” andrebbe a comprare il prodotto originale, la gran parte cambierebbe semplicemente interesse…

Il gioco delle tre carte

Cominciamo allora dalle colpe (parecchie) dei produttori.  Una parte dei produttori di software (qui le distinzioni fra applicativi e giochi, PC e console si fanno lievi), quella interessata al mercato consumer, realizza a tutt’oggi software con protezione “morbida”, facilmente aggirabile. Gli stessi poi si riuniscono in consorzi e lanciano strali contro la pirateria, da essi stessi incoraggiata, che provocherebbe danni per milioni e milioni di euro. L’atteggiamento è decisamente ambiguo, e non pare di vedere grosse attenuanti: se è vero che creare un sistema assolutamente a prova di copia è difficile e costoso, è altrettanto vero che rendere la copia di un software o di un gioco più complessa non sarebbe un compito così impossibile. Il fatto poi che Sony produca anche i masterizzatori è poco più che un dettaglio: i guadagni che il colosso nipponico trae dai videogiochi sono incomparabilmente superiori a quelli prodotti con la vendita di Cd-R e accessori. Com’è noto, però, perché il business dei videogame abbia successo è necessaria una diffusione capillare delle console, ed è veramente arduo contestare il fatto che il successo della prima PlayStation sul mercato europeo (il 35-40 per cento del totale mondiale) sia dovuto anche alla possibilità di trovare giochi copiati. Certo, la programmabilità della PSX ha facilitato la produzione di giochi per questa console, ma è ben vero che nei paesi in cui la copia dei videogiochi è abitudine poco diffusa, il mercato va in direzione ben diversa. Controprova: nel 1999 d il mercato statunitense delle console era appannaggio della coppia N64PSX con quote praticamente paritarie. Alla faccia della difficoltà nella programmazione della console Nintendo e della diffusione dei giochi su cartuccia. In Europa, guarda caso, al di là di certe scelte di “disimpegno” da parte di Nintendo, il mercato ha bocciato un supporto molto difficile da copiare, per preferirne uno iperduplicabile. In definitiva: credo di più a una campagna antipirateria discografica condotta dalla EMI, che non deve vendere un lettore MP3  che tutti già possiedono, piuttosto che una crociata della BSA (Business Software Alliance) o dei produttori di videogame a difesa dei loro prodotti.

La stampa generalista

A fianco al discorso culturale e di mercato, interviene, sempre più spesso, un aspetto legale ricorrente sulla stampa generalista. Si intravede un tentativo muscolare della lobby del software di tornare al controllo di una situazione ormai ingovernabile. Questo ha prodotto però una pessima legge che, tanto per dire, diversifica per la prima volta la copia di un prodotto informatico da quella di un DVD, oltre all’introduzione di una delirante norma sul bollino SIAE obbligatorio. In questo campo c’è chiaramente ancora molta strada da fare, anche perché lo spazio di manovra lasciato ai giudici è enorme (e per fortuna, almeno per ora), e l’interpretazione dei testi quanto mai dubbia. Da questo punto di vista molto credo potrebbe pesare un’opinione pubblica in grado di compattarsi per reclamare leggi migliori e più efficienti, magari con il supporto di una stampa un po’ meno miope: è difficile concludere alcunché quando il termine “hacker” si applica indiscriminatamente a chiunque utilizzi un computer per fare qualcosa che non sia solo scrivere con Word. Da questo punto di vista è costantemente ignorato il valore inestimabile dello
spirito di ricerca che anima chi, sul limite tra lecito ed illecito, cerca più per divertimento che per lucro di andare oltre i limiti di un PC, una console, un programma. L’ormai grande ventaglio di programmi sviluppati ad esempio su Dreamcast, spesso usando quel piccolo capolavoro che è l’Utopia Boot Disc, è qui per dimostrarlo.

I consumatori

E noi consumatori? Ammettiamo subito le nostre colpe: evitare di spendere 70 euro  per un gioco fa piacere a molti, non c’è dubbio. In un paese tradizionalmente “dei furbi” come il nostro, poi, questo comportamento assume dimensioni patologiche difficilmente giustificabili, spesso con conseguenze effettivamente negative sulle software house, specie le più piccole, che si vedono negare introiti significativi. Il primo giudice di tutto ciò è, come sempre, il nostro buon senso, cui molti di voi facevano riferimento nelle proprie lettere. E’ giusto, senza dubbio, compensare nella giusta maniera chi ci garantisce ore di divertimento, senza rubargli il frutto della sua fatica. Senza questa forma di civiltà elettronica, difficilmente si verrà a capo di qualcosa e tanti piccoli progetti rimarranno magari chiusi in un cassetto invece di vedere la luce. Ovviamente c’è, dietro l’angolo, il rovescio della medaglia: il buon senso non può tutto di fronte ai comportamenti rapaci di mutinazionali del software e del divertimento elettronico. In definitiva quindi, corretti forse si, ma non fessi… o no?